L’imposta rimane fissata a 0,50 € al chilo: una somma comunque esorbitante se si considera che le più comuni materie plastiche ne costano 0,80.
Invariato anche l’impianto fiscale: un’imposta di consumo, di complicata gestione, gravata da un sistema sanzionatorio rischiosissimo (fino a 10 volte l’imposta non versata) e incontrollabile per eventuali esenzioni (mancano i più elementari criteri di verifica).
L’allarme tra le 3.000 imprese del settore e i loro 50.000 lavoratori rimane altissimo.
Dal 15 ottobre scorso, quando il Governo ha annunciato la misura, i rapporti con il mercato e con il sistema creditizio si sono irrigiditi: blocco degli ordini, stop agli investimenti e fortissimo rischio credito per imprese e gli investitori.
È evidente che non si tratta di microtassa, come si è dato ad intendere, né di tassa etica dato che le materie plastiche hanno un bilancio ambientale ben più favorevole di quello di altri materiali: men che meno si tratta di una tassa contro le multinazionali dato che colpisce migliaia di piccole e medie imprese.
Il Governo dovrebbe stralciare questa misura dalla Legge di Bilancio e proseguire rendendo costruttivo e strutturale il dialogo con Aziende e Organizzazioni sindacali per assecondare i miglioramenti, già in atto, e per minimizzare l’impatto ambientale.
Una politica veramente circolare potrà infatti produrre effetti positivi all’industria, all’occupazione e all’ambiente.
Il Paese e questa industria hanno urgente necessità di politiche incentivanti e di impianti di recupero e riciclo degni di tal nome e non di altre tasse che avrebbero come unico effetto un ulteriore caduta dei consumi interni e del PIL.